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Romania
La Romania rappresenta il mio insaziabile
desiderio di scoprire il passato, di cui ho sentito soltanto raccontare,
il desiderio di poter toccare la povertà paragonabile al nostro
dopoguerra, la spinta che porta il suo popolo ad emigrare verso il nostro
paese e la curiosità di guardare negli occhi i bambini che vivono
la precarietà.
Questo popolo dalla grande ospitalità, sentendosi sillabare la
mia provenienza, mi sorrideva con pensieri sognanti e con grandi speranze,
ognuno conosceva almeno poche parole perché se non in prima persona,
aveva avuto parenti emigrati in cerca di fortuna.
Ciò che più mi ha lasciato stupito è stato il loro
senso di rassegnazione, quell’adattarsi alla sorte che li portava
a sopravvivere e ad accontentarsi del pochissimo, quella genialità
nello sfruttare l’attimo o la situazione e quell’egoismo reso
quasi cieco dalla povertà, che come un male sconosciuto distruggeva
anche i più forti legami; quella forza più grande di loro
che cominciava con l’abbandono dei figli o dei genitori e sfociava
nella colla da sniffare e nell’alcool di pessima qualità.
Josif si aggirava senza meta tra l’indifferenza
di ogni passante e senza chiedere niente a nessuno, si fermava soltanto
a rovistare tra gli scarti, alla ricerca di ciò che potrebbe essergli
utile o sostituirgli il pasto e di tanto in tanto portava alla bocca una
piccola busta di carta bianca, che magari gli alleviava i dolori, quando
ha incrociato il mio sguardo mi ha sorriso chiedendomi cosa pensavo di
visitare in quelle zone… il suo inglese era sicuramente impeccabile!
Aveva studiato fino a nove anni nella città natale e da quattro,
ormai, viveva nelle fogne di Bucarest, era stato accompagnato dai genitori
ed abbandonato, scaricato come un peso che poteva sottrarre del pane,
diceva…
…quando per mia volontà gli ho dato una piccola offerta mi
ha baciato tre volte le mani facendomi sentire piccolissimo, adesso ancor
di più, a pensare che regalandogli tutto quello che avevo in tasca,
avrei saltato la cena e lui avrebbero vissuto meglio per giorni, molti
più giorni.
Così quando entrai in quell’orfanotrofio per bambini malati
di TBC, pensai che la fortuna era stata più clemente con loro,
per averli dato da mangiare, da dormire e qualcuno che a turno potesse
occuparsi di loro, c’era una luce più brillante nei loro
occhi, era il sorriso che non era quello di un bambino.
I più fortunati eran quelli che mi seguivano incuriositi quando
a piedi arrivavo nei paesini sperduti tra le campagne, quelli che avvertiti
dai compagni venivano fuori da casa, divertiti e parlottando tra di loro
mi chiedevano la “posa” ed io che non aspettavo altro mettevo
a fuoco e cercavo la loro espressività, poi saltuariamente sparivano
e poco dopo li vedevo ritornare con oggetti o indumenti cui andavano fieri,
cercavano di farsi spazio per esser notati e appena incontravano il mio
sguardo ripetevano “posa?”
Rimanevano da soli fino al tramonto, quando nell’assoluto silenzio
si udivano gli zoccoli dei cavalli che tiravano carretti colmi di uomini
stanchi e donne con fazzoletti coloratissimi che coprivano la testa, fino
a quell’ora la casa di quei bambini era stata la strada che li accomunava
e li faceva divertire, senza nessun cartone, in una TV che ha solo tre
canali di cui uno, soltanto folcloristico; senza computer; senza videogiochi
e senza niente di elettronico che rovinerebbe quella magia che ti riporta
negli anni ‘50.
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